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Il metodo della mamma canguro

Kangaroo Mother Care (KMC)

Dipartimento Materno-Infantile
U.O. Neonatologia e Terapia Intensiva Neonatale
Direttore Dott. Paolo Tagliabue

Il metodo delle mamme canguro è nato nel Sud del mondo, a Bogotà (Colombia) alla fine degli anni 70, quando alcuni medici dell’ospedale S. Juan de Dios decisero di ricorrere alle madri per curare i bambini prematuri.

In un ospedale con risorse limitate, sia per il numero che per la funzionalità delle apparecchiature, lo scopo era quello di utilizzare il contatto pelle-pelle tra le madri e i neonati, affinchè questi potessero ricevere calore, nutrimento e amore. Mediante l’applicazione di una procedura non costosa e non sofisticata, si ottenne una importante diminuzione della mortalità per malnutrizione, squilibri termici, infezioni, apnee (sospensioni del respiro) e broncopolmoniti da aspirazione di latte.

Dai Paesi in via di sviluppo questa modalità di cura si è in seguito estesa a Paesi industrializzati d’Europa (Germania, Svezia, Italia… ) e del Nord America (Stati Uniti, Canada…). Nelle TIN di questi paesi, dove è disponibile una assistenza altamente sofisticata, e costosa, che consente la sopravvivenza a gran parte di neonati di peso molto basso, non sempre esiste una concomitante attenzione agli aspetti “umani” delle cure. Infatti il contatto madre-neonato è limitato anche per lunghi periodi, prevalgono l’alimentazione parenterale e quella mediante sondino gastrico sull’allattamento al seno, e il passaggio all’allattamento al seno, se mai avviene, risulta difficile anche quando il bimbo è vicino alla dimissione. In questi paesi il metodo non costituisce, perciò, l’unica alternativa assistenziale per i neonati critici, ma una integrazione ai mezzi convenzionali più sofisticati e disponibili, in genere, senza particolari limitazioni. Acquista perciò più una valenza legata al miglioramento della “umanizzazione” delle cure e al miglioramento del bonding madre-neonato: insieme con il rafforzamento del loro legame, cresce, per la madre, la percezione della propria competenza nell’occuparsi del bambino, premessa indispensabile per una dimissione precoce dall’ospedale. Contemporaneamente, poi, persistono tutti gli altri vantaggi documentati dalla letteratura. Applicando il metodo della mamma canguro, infatti, il neonato presenta una migliore stabilità della funzione respiratoria e cardiocircolatoria, un buon controllo termico, una migliore ossigenazione, una riduzione della attività motoria non finalizzata, piange meno, impara in minor tempo a succhiare direttamente al seno.

Presso la nostra UO fino al 1983, l’ingresso non era consentito né alla madre né al padre, se non in situazioni particolari, che di solito si identificavano con situazioni terminali. I genitori potevano vedere i bambini dal vetro di un corridoio esterno alle stanze di degenza, in una ristretta fascia oraria della giornata, dalle 18 alle 18,30.

Successivamente si è fatta strada la convinzione, fra medici e soprattutto tra le infermiere, che le cure devono essere rivolte al bambino nel contesto del suo nucleo familiare. Si è avvertita la necessità di coinvolgere i genitori all’interno del reparto per aiutarli a superare il senso di frattura che la nascita di un bambino patologico produce. Si è compreso che, per aiutarli a vincere le loro paure, occorreva stabilire un contatto fisico con il bambino: vederlo avrebbe consentito di annullare i fantasmi dell’immaginazione; toccarlo avrebbe aggiunto sicurezza alla percezione della realtà.

Attraverso fasi successive in cui l’ingresso è stato consentito prima solo alle madri, privilegiandole rispetto ai padri, e ammettendone una sola al mattino tra le 12 e le 13, e una sola al pomeriggio tra le 15 e le 16, il reparto è stato aperto a entrambi i genitori nel febbraio del 1988.

Un ulteriore passo avanti nel migliorare la qualità delle cure al neonato patologico è stata l’introduzione del metodo della mamma canguro. Seguendo l’esempio di quegli ospedali dei Paesi industrializzati che avevano con successo introdotto la procedura nella policy di reparto, nel 1989 abbiamo definito un “protocollo” che prevedeva la proposta del metodo a tutti i bambini con peso alla nascita = < 1500 g , in condizioni buone e stabili, nutriti con il latte e non più per via venosa, che non richiedessero un apporto di ossigeno superiore al 30%.

All’epoca definivamo il metodo “marsupio terapia” e parlavamo appunto di “protocollo”, a sottolineare la dimensione medico tecnica, dalla quale non potevamo all’inizio prescindere.

Prima di iniziare le sedute abbiamo spiegato a entrambi i genitori le modalità di attuazione, il significato e l’importanza del metodo, così da renderli consapevoli del ruolo di entrambi (e non solo della madre). Alla mamma abbiamo chiesto una disponibilità di almeno 2-3 ore per seduta, due o più volte al giorno, per almeno 3-4 giorni alla settimana. Al papà abbiamo spiegato che il metodo privilegiava la madre, così come la natura la privilegia per la gravidanza, e che il padre poteva inserirsi nel percorso di recupero del rapporto, senza sentirsi escluso.

Prima e dopo la seduta abbiamo rilevato la frequenza cardiaca, respiratoria, la temperatura della pelle, il grado di ossigenzione del bambino, e abbiamo valutato le variazioni della crescita dopo l’inizio del metodo. Nel corso delle prime sedute, era prevista la presenza di un neonatologo per valutare le condizioni cliniche e l’andamento del bambino.

Anche questa presenza testimonia come, all’inizio, considerassimo il metodo una vera e propria procedura terapeutica e sentissimo la necessità di mantenere il controllo su tutto ciò che in qualche modo riguardasse il bambino.

Abbiamo superato nel corso degli anni diverse difficoltà, tra le quali principalmente lo scetticismo di alcuni medici, la preoccupazione delle infermiere rispetto a un maggior carico di lavoro e alla perdita di ruolo (erano loro, una volta, a coccolare i bambini). Abbiamo sostituito quindi il termine “Marsupio Terapia” con “Metodo Marsupio” e “Metodo della mamma canguro” e, più recentemente con “Kangaroo Mother Care”, dove la parola inglese “care”, a differenza di quella italiana “cura” che richiama ancora e fortemente una matrice medica, evoca più l’aspetto sociale e familiare del prendersi cura, far star bene, far crescere, promuovere e valorizzare le capacità della persona. E’ stato necessario tempo perché la cultura si evolvesse e, anche tra i medici, la madre venisse considerata la figura centrale per la cura del bambino prematuro/patologico.

Nella nostra TIN, oggi, il Metodo della mamma canguro è parte integrante della policy di reparto, le madri che afferiscono al nostro ospedale ne sono informate, e considerano il momento in cui possono iniziarlo cruciale nel loro percorso di maternità, quasi si trattasse di una seconda nascita. Accogliendo anche i suggerimenti delle infermiere, è stato “naturale” estendere le indicazioni e reclutare, così, un numero maggiore di bambini e in un’epoca sempre più precoce.

Dall’inizio del 1998 il peso alla nascita non è più un elemento limitante: viene proposto il metodo della mamma canguro non solo a bambini di peso molto basso, ma anche semplicemente a tutti i bambino di basso peso (cioè con peso alla nascita < 2500 g); ai bambini non autonomi rispetto alla funzione respiratoria, con la sola esclusione di quelli ancora collegati al respiratore; ai bambini in nutrizione parenterale e comunque anche a quelli portatori di catetere venoso centrale. Non fissiamo limiti di tempo, lasciando ampia libertà per la durata, chiediamo solo la disponibilità minima di un’ora, per evitare uno stress eccessivo al neonato per le rapide richieste di adattamento ad ambienti diversi, il corpo della mamma e l’incubatrice. Abbiamo proposto anche ai papà la pratica di questo tipo di cura e, dopo iniziali difficoltà legate forse a una sorta di pudore come se il contatto fisico con il bambino risultasse critico in un reparto ospedaliero sotto gli occhi di estranei, abbiamo avuto anche da loro adesione convinta ed entusiasta.


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